Il flâneur detective
Tra fotografie e racconto i ricordi degli anni più belli
Prefazione di Cesare De Michelis e Postfazione di Tonci Foscari
Marsilio, Venezia, 2015
Il libro ripercorre, attraverso una narrazione autobiografica, la vita e l’esperienza dell’autore, attraverso il filo conduttore del duplice rapporto con la scrittura e la fotografia – ambiti che Obici ha tenuto sempre rigorosamente distinti – intesi come strumenti di analisi della realtà.
Il titolo accosta le varie anime di Obici, che si integrano e si completano, arricchendosi mutualmente: quella del giornalista attento e rigoroso; quella dello scrittore analitico, che ricostruisce le suggestioni della memoria con severa moralità; quella del fotografo, stupito dal meccanismo stesso della fotografia.
Sullo sfondo della narrazione emerge – e a lei è dedicato uno dei diversi capitoli – l’altra grande protagonista della vita di Obici: Venezia, dove è nato e in parte vissuto, una città che ha amato per la sua laguna, la sua luce, le sue vedute, la sua storia. Ma anche altri elementi confluiscono nel libro: l’impegno militante di chi per un decennio ha inseguito le tracce di un terrorismo, nel quale i propositi eversivi si trasformavano in mostruose stampelle al sistema; l’orgoglio per la tradizione di una famiglia che aveva inventato il quotidiano dei veneziani (Il Gazzettino); e l’amore per i genitori, mai piegatisi alle violenze fasciste, avendo sempre educato Giulio alla responsabilità e alla rettitudine.
Da queste pagine emerge il profilo di un uomo che ha vissuto con fervida e accesa passione, con intenso amore per la conoscenza e lo studio, con lucida e attenta razionalità. Un uomo che ha lasciato un’acuta riflessione sull’Italia del secondo Novecento.
Il titolo accosta due figure che riassumono bene la personalità dell’autore, pur nella loro contrapposizione: l’una ostinatamente determinata nella ricerca di un’assoluta verità, come Giulio fu nel lavoro di giornalista, pronto a sfidare qualsiasi tentativo di occultamenti; l’altra imprevedibilmente disponibile a perdersi lungo le strade suggerite da una curiosità mai appagata, perennemente senza meta nel suo perenne vagabondaggio. E ancora: da una parte uno scrittore limpidamente analitico… dall’altra un fotografo che letteralmente rapisce con uno scatto l’istante altrimenti perduto.
Cesare De Michelis
Ogni scatto fotografico di cui Giulio scrive nel Flânuer detective è un frammento di un’autobiografia intellettuale. A Milano – la grande città in cui è approdato – Giulio svolge lo sguardo con il distacco di chi sente di appartenere a un mondo di valori e di cose diversi. E’ attraverso questa forma di distacco, direi di alterità, che si avverte distintamente un sentimento che serpeggia lungo tutto i racconti: la percezione, a volte dolorosa, della “mancanza di Venezia”, la città magica nella quale il bisnonno aveva fondato e diretto un importante quotidiano, il nonno lo aveva ereditato e la madre, il padre e lo zio, anche loro giornalisti, continuavano a scrivere.
Tonci Foscari
È un libro da leggere tutto d’un fiato Il flâneur detective, una vera e propria trama di memorie intessuta da Giulio Obici, fotografo e scrittore autodidatta, scomparso nel 2011. Con Venezia – la sua città d’origine – nel cuore, Obici ha cavalcato il Novecento, affidando a una naturale impazienza narrativa le redini del suo intero vissuto. Una narrazione duplice, che ha saputo correre su binari paralleli e speculari, attratti l’uno dall’altro a partire da una matrice comune: la curiosità verso il mondo e la necessità di rappresentarlo.
Parole e immagini compongono il vocabolario di Obici sin dall’infanzia, quando, complice una famiglia di giornalisti, la scrittura divenne per lui un’esigenza impellente e uno straordinario mezzo per “impossessarsi, con la mente e con le mani, della vita: e studiarla, e fermarla nel tempo e proiettarla nel futuro”. Fin dall’inizio, laddove la scrittura si inceppava, era l’immagine a venirle in soccorso, sancendo un connubio destinato a trovare nella fotografia la metà mancante. Dalla scrittura inchiostrata a quella che rintraccia nella luce la sua sostanza il passo è breve e, nella vita di Obici, i confini tra le sue passioni più grandi si assottigliano con la crescente consapevolezza della loro forza. Nei racconti del fotografo, gli scatti sembrano intervallare le parole, come a riempire le pause di respiro che le separano.
Il medesimo sistema narrativo emerge anche dall’allestimento della mostra ospitata dalla Casa dei Tre Oci di Venezia fino al 28 marzo, nell’ambito della rassegna Tre Oci Tre Mostre. Intitolata come il volume, l’esposizione restituisce una galleria di immagini intense, puntuali, raccolte da Obici tra le strade dei luoghi vissuti, cui la scrittura, presenza silenziosa ma eloquente, fa da sponda, bilanciando gli equilibri. Del resto, la palestra visiva dell’autore è stata una città fra le più complesse al mondo, in grado di reggersi su regole statiche miracolose e di fornire un racconto di sé sempre mutevole. Vivendo in mezzo a un mosaico di riflessi, l’equilibrio è d’obbligo.
Eppure, fu proprio grazie a un gioco di inaspettati riflessi che Obici riconobbe l’amore per la fotografia. Galeotti i serramenti non funzionanti della sua stanza di bambino, affacciata sul Canal Grande, e complice una fessura, attraverso la quale gli stralci della realtà esterna si proiettavano, capovolti, sulla parete opposta. Una camera oscura a misura di infanzia, la cui magia sarebbe sopravvissuta alla guerra e alla fame, alla paura dei nazisti e delle retate da parte di una famiglia impegnata nella Resistenza e orfana di un quotidiano, Il Gazzettino, fondato dal bisnonno di Obici nel 1887 ma preso in ostaggio dai fascisti negli Anni Trenta.
Scrittura e luce continuarono a brillare fra le mani del fotografo e giornalista, via via che la maturità bussava alle porte, unendosi in un incastro perfetto nell’immediatezza dello scatto, in quel “click” che suggella l’identità della fotografia: “l’unica arte che si realizzi con un gesto solo, rapido, inesorabile, sempre uguale nel tempo eppure sempre nuovo”. O continuando a correre su binari paralleli, assicurando a Obici due strumenti preziosi, disponibili in qualsiasi momento. E allora anche Milano, città d’adozione, dalla “modernità immobile”, si presta a essere ritratta, a suon di luce e immediatezza, mentre la scrittura inchiostrata prende la parola come testimone comprimario della realtà quando Obici risponde all’urgenza del giornalismo, documentando gli anni plumbei delle Brigate Rosse o i tanti, affollati processi in tribunale. Parole e fotografia, con Obici, diventano lessico e sintassi di una scrittura multipla, che, forse, trova la sua collocazione ideale sulla famosa linea di mira di cui parlava Cartier-Bresson, allineando occhio, cuore e mente.
Arianna Testino
Presentazione alla Casa dei Tre Oci, Venezia
Mercoledì 9 marzo 2016 alle ore 18
Intervengono Denis Curti, Renato Corsini e Cesare De Michelis