“Sono un fotografo di strada: là mi trovo a mio agio. Come da giornalista, così da fotografo, non invento un fatto, ma lo cerco, lo indago e lo colgo al volo.”
BIOGRAFIA
Nato a Venezia nel 1934, Giulio Obici è stato inviato speciale ed editorialista di Paese sera. Negli anni della strategia della tensione e del terrorismo si è imposto per le sue inchieste di controinformazione sullo stragismo, i servizi segreti deviati, le trame nere e i processi politici. Ha poi raccontato il tramonto della Prima Repubblica, seguendo e spesso anticipando le indagini giudiziarie sui misteri italiani.
Accanto all’attività di giornalista ha sempre coltivato un profondo amore per la fotografia, catturando nel bianco e nero rigoroso delle sue istantanee fotografiche la dimensione surreale presente nel quotidiano; cercando l’immagine capace di evocare e sintetizzare una storia di vita o di ritagliare geometrie di forme nel caos della realtà. Questo il suo progetto, fin dagli esordi, nel 1954: una foto, un racconto; un’immagine, una storia.
Obici fotografava con le Leica M e stampava da sé le proprie foto.
Ha pubblicato il saggio Venezia fino a quando? (1967) e i volumi fotografici Racconti metropolitani (2002) e Folletti (2003). Nel 2015 è uscito postumo, edito da Marsilio, il suo libro di ricordi e di considerazioni sul linguaggio della fotografia Il flânueur detective. Tra fotografia e racconto i ricordi degli anni più belli.
È morto nel 2011 a Muslone di Gargnano sul Lago di Garda.
LA FAMIGLIA
“Sono cresciuto a Venezia, in una famiglia dove fin dalla prima infanzia ho sempre visto gli adulti trascorrere le giornate, da mane a sera, scrivendo.”
Giulio Obici cresce in una famiglia di intellettuali, giornalisti, legati al partito socialista e, durante la guerra, alla Resistenza antifascista.
Il bisnonno materno di Obici è Gianpietro Talamini che nel 1887 aveva fondato e diretto il quotidiano del Nord-est Il Gazzettino. Il nonno Ennio, subentrato nel 1934 alla morte del padre alla direzione del giornale, verrà estromesso dal regime fascista sia dal ruolo di direttore sia dalla proprietà del Gazzettino, proprietà che, dopo un iter giudiziario duranto cinquant’anni, sarà in parte restituita agli eredi.
La madre Carolina, anche lei giornalista, scrive per la La Lettura mentre il padre Mario, da cui Giulio eredita anche la passione per la fotografia, svolge le mansioni di caporedattore centrale del Gazzettino, ruolo che abbandona nel 1944 quando i nazisti occupano Venezia e ne controllano la stampa. Nonostante gli obblighi di legge, Mario Obici non verrà mai riassunto dal quotidiano che negli anni del dopoguerra entra nella sfera del potere democristiano.
Il nonno paterno invece è il grande psichiatra Giulio Obici, antesignano del metodo Basaglia e militante del partito socialista. Primario dell’ospedale psichiatrico di Venezia nei primissimi anni del Novecento bandì i letti di contenzione e le catene cui erano legati i malati di mente. Così lo ricorda l’Avanti! all’indomani della morte, in 25 gennaio 1906:
“Iersera a soli 37 anni si spegneva, in seguito ad una malattia di pochi giorni, il prof. Giulio Obici, il valoroso psichiatra vice-direttore del manicomio di S. Servolo, una delle speranze migliori della nuova scienza psichiatrica. Era uno studioso profondo ed originale, oratore facondo e brillante, ed a Venezia in soli tre anni era diventato popolare ed universalmente stimato ed ammirato. Egli era pure uno dei nostri migliori, per quanto in questi ultimi tempi il lavoro immenso di riordinamento a S. Servolo e i suoi studii prediletti lo avessero costretto ad appartarsi della vita militante di partito, al quale rimaneva però legato da vincoli di solidarietà costante ed esplicita. Egli fu a Ferrara il fondatore del partito e del locale organo socialista, la Scintilla, assieme ad altri compagni valorosi”.
LA PASSIONE PER LA LEICA
“Ho imparato a scrivere tra gli otto e i dieci anni. E ho imparato a fotografare quando ne avevo venti. Sono arrivato in ritardo a tutti e due gli appuntamenti, ma non me ne rammarico.”
“La Leica III era entrata in casa nel 1938. Era costata la bellezza di duemilatrecento lire, obiettivo compreso. Se penso che mio padre guadagnava allora duemila lire tonde al mese, non ho difficoltà a immaginare quanto desiderasse appendersela al collo. Era un bravo fotografo: amava i ritratti e i paesaggi (…). Una sua stampa, la barca dei bagnini sulla spiaggia del Lido sotto un cielo minaccioso (‘L’ho scatta con il filtro verde’ mi raccontava), l’ho incorniciata e appesa nel soggiorno: anche in segno di gratitudine.”
FOTOGRAFIA
“Ho scritto pubblicamente e ho fotografato in privato: sono stato così esposto nello scrivere che non ho mai pensato di esibire, e tanto meno sbandierare, le mie foto. Ciò non significa, tuttavia, che abbia praticato la fotografia per farne un diario personale: mi sarei sentito un dilettante. Che idea, si dirà: uno che fotografa senza ragioni di lucro è sempre un dilettante. Non è vero: la professionalità di un qualsiasi esercizio intellettuale non dipende dalla remunerazione che ne derivi. È piuttosto uno stile di lavoro (…). Anche i fotografi non si distinguono in professionisti e dilettanti, ma in bravi e non bravi.”
“Mi hanno sempre attratto, parlo di fotografia, i riflessi, le immagini che si moltiplicano negli specchi o nei vetri: riservano sempre qualche sorpresa ottica, racchiudono un pizzico di mistero. Mi piace anche il gioco delle quinte: non è mai certo se riflettano la realtà o il suo contrario, la trama di una storia vera o quella di una supposizione. Come in teatro, dove l’artifizio mette l’ovvio verismo delle persone in contrapposizione alla finzione letteraria e dove, quasi sempre ricorre il colpo di scena. Ovvero il rovesciamento delle certezze acquisite, la metafora della vita.”
“In fotografia, il processo creativo è complesso proprio perché elementare, arduo perché istantaneo, incerto perché il prima e il durante non dispongono di esercitazioni propedeutiche o di verifiche a tavolino (…). Paradossalmente, ma non troppo, si potrebbe dire che la fotografia è la meno manuale delle arti e quella che può delegare all’uomo i più ampi spazi per la speculazione.”
“Nella fotografia non c’è niente di più e niente di meno di ciò che è passato, in un istante, attraverso l’obiettivo della macchina. Questa convinzione, per quanto mi riguarda e per quanto possa interessare, mi induce a stampare l’intero negativo. Niente tagli: ciò che è sul fotogramma deve essere sulla carta. Se sulla pellicola c’è di più di quanto prevedessi, non l’infilerò mai nell’ingranditore: la foto non è riuscita (…). È l’inevitabile risultato della consapevolezza che la fotografia si ‘fa’ quando premi il pulsante, che è esattamente quello che hai visto nel mirino o che intendevi vedere.”
“Roland Barthes, in La camera chiara, sostiene che ‘in ogni foto’ ricorre ‘quella cosa vagamente spaventosa’ che è ‘il ritorno del morto’. Io, invece, quando osservo una qualsiasi foto di molti anni fa, per esempio una scena di strada degli inizi del secolo, mi chiedo subito dove stia andando quella figura in marsina colta al volo mentre sale un gradino, cosa stia dicendo all’amico che gli è al fianco, dove andrà di lì a poco, come concluderà la giornata. Altro che morte: la fotografia fa rivivere la vita trascorsa, riattualizza il passato e lo rende un presente indefinito e prolungato, sfuma i contorni del tempo, insomma immortala.”
GIORNALISMO
“Giulio era innanzitutto un grande giornalista, un grande inviato, nell’epoca in cui gli inviati si trovavano avviati, come i dinosauri all’estinzione – e come i dinosauri – senza sospettarlo. Era grande per l’impegno politico e contemporaneamente per la capacità di analizzare e di raccontare. Il concetto di scoop gli era diventato estraneo; in quegli anni, di fronte alle stragi, alle trame, agli anti-stati, non aveva senso il lavoro isolato, la ricerca del ‘buco’ da infliggere ai colleghi: piuttosto, partendo dagli stessi dati, dalle stesse informazioni di tutti gli altri, il bravo giornalista si sarebbe distinto per la capacità di organizzarli e descriverli in modo più o meno completo, o semplicemente diverso, dagli altri (…). Quando l’ho conosciuto, nel 1973, il giudice Giovanni Tamburino stava per iniziare a Padova l’istruttoria su quel groviglio di fascisti, golpisti, ufficiali e capi dei servizi segreti devianti, passato alla storia come ‘Rosa dei Venti’. Il nucleo centrale degli inviati scesi allora a Padova, e rimastici ininterrottamente per mesi, si era già coagulato altrove seguendo le prime inchieste sulle stragi nere, era affiatato e motivato, con Giulio c’erano Marcella Andreoli dell’Avanti!, Gianni Flamini dell’Avvenire, Giuliano Marchesini della Stampa, Marco Nozza del Giorno, e nessuno si sarebbe minimamente sognato di fare sgambetti ai colleghi, anzi: per scelta etico-politica ogni notizia sigolarmente raccolta doveva essere messa in comune con tutti i colleghi, anche quelli che non appartenevano al gruppetto di più stretta affinità. Se poi qualcuno degli altri avesse ceduto alla tentazione di tenere l’informazione per sé, o di usare distortamente quelle ricevute, di tradire insomma lo spirito collettivo – capitava, anche se raramente – bene, da quel momento avrebbe dovuto fare da sé. Di tutto questo, Giulio era l’anima. A lui facevano capo i meeting pomeridiani in qualche sala d’albergo per scambiarsi le notizie e stenderne la ‘scaletta’. Sempre lui, tumultuoso nelle ire, sapeva prendere di petto i colleghi scorretti, allontanarli dal pool urlandogli in faccia il perché (…). Poco dopo vennero gli anni del terrorismo rosso e, a Padova, dell’inchiesta ‘7 Aprile’ condotta dal sostituto procuratore Pietro Calogero su ‘Autonomia Organizzata’ e i suoi rapporti con le Brigate Rosse. Tornò, più numerosa di prima, la carovana degli inviati. La scelta della condivisione delle notizie non era cambiata ma si era fatta più difficile, l’opzione politico-giornalistica di impegnarsi ‘contro’ l’eversione, così facile quando si trattava di avversare il neofascismo, in qualcuno vacillava. Amicizie, antichi rapporti, si incrinavano; ma quelli rimasti intatti si rinsaldavano. Si lavorava in mezzo al fiaccolare di attentati e minacce personali. Giulio continuava ad animare il gruppo, era quello che si procurava, e condivideva, la maggior quantità di notizie. Gli strappi erano però più frequenti, le sue conseguenti sfuriate anche.” (Michele Sartori)
“Ho seguito, da giornalista, l’intera vicenda delle Brigate Rosse (…). Ricordo quel periodo come una stagione di grande impegno professionale e civile (…) anche perché, da uomo di sinistra, assunsi subito posizioni controcorrente, poco inclini ad assecondare l’onda di piena che, anche dopo il sequestro Moro, riversò sull’opinione pubblica una marea di sproloqui tesi ad accreditare una vocazione antisistema delle Brigate Rosse. A quella vocazione non avevo mai creduto e, a partire dal 1974, con l’avvento delle nuove Brigate Rosse di Moretti e soci, mi convinsi che il terrorismo era invece una stampella del sistema, una protesi inventata o utilizzata per sostenere lo status quo, per frenare una naturale evoluzione del Paese verso traguardi di sinistra.”
FOTOGRAFIA E GIORNALISMO
“Nella mia vita ho seguito da giornalista una infinità di processi. Non ne sono mai stato, come si usa oggi, uno spettatore asettico: ne ho scritto ogni volta seguendo liberamente le mie convinzioni e azzeccando quasi sempre l’accento critico più appropriato, come accadde, tanto per citare, con il caso Valpreda. Ma mai, nemmeno quando era caduto il divieto, mi sono portato dietro, con il block notes, anche la macchina fotografica: il giornalista segue la trama, il fotografo insegue l’episodio. E infatti lasciavo a casa la mia Leica non solo quando dovevo recarmi in tribunale, ma in ogni altro servizio. Unica eccezione, forse, il movimento del Sessantotto, ma allora il protagonista era la strada e sulla strada c’è spazio e tempo per l’appunto e per l’immagine. Ho perso tutti i negativi dell’epoca, ma ne conservo religiosamente qualche stampa e quando la guardo ne avverto il formidabile potere evocativo.”